CHICCO ROCCO

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Di tutti i paesi europei, l’Islanda fu quello che la crisi colpì con maggior violenza. Era la fine del 2008 quando gli islandesi cominciarono ad affrontare la crisi economica. Gli istituti di credito, dopo essere stati privatizzati, avevano accumulato debiti pari a dieci volte il prodotto nazionale lordo e dopo il fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers, il sistema economico dell’isola ci mise poco a saltare. Gli islandesi si trovarono sommersi di debiti. La disoccupazione triplicò in sei mesi, molte persone persero i risparmi. Il sistema economico crollò e diede vita ad una delle più grandi crisi economiche del secolo. Malgrado questo la popolazione percepì la crisi come possibilità di rinascita. Invece di abbandonare la nave e scappare altrove, gli islandesi scelsero di restare. Alcuni imprenditori, che vivevano e lavoravano già da anni all’estero, tornarono in Patria per aiutarne la ricostruzione. Nel 2013 il p.i.l. è cresciuto per il terzo anno di seguito, la disoccupazione è tornata sotto il 6%, il bilancio dello Stato è quasi in pareggio e il Paese esporta più beni e servizi di quelli che importa.

Interessante un dato sulla popolazione: la densità media è una tra le più basse del pianeta (3,10 ab./ km²), tanto più se si tiene conto che due terzi degli islandesi vivono nella capitale Reykiavik. E la restante parte? Ecco, loro sono lo specchio del Paese.

Radicati, quasi saldati a quella terra, ostica di natura, dove si percepisce la forza degli elementi e si è in balia dei cambiamenti climatici improvvisi. Strutture come case, chiese e fattorie, isolate da tutto e tutti per decine di chilometri, immerse in sconfinate terre primordiali e oniriche, sono il vero e proprio ritratto dell’islandese che rispetta la propria terra, si adatta ad essa fino a diventare parte integrante del paesaggio, in piena armonia e sintonia con esso. Il messaggio che ne scaturisce sembra chiaro: Qui siamo, e qui rimarremo. Qualsiasi cosa succeda.